venerdì 15 ottobre 2010

Sa morti 'e sa terra nosta no fait arrumòriu

PAOLA ALCIONI
Sa morti 'e sa terra nosta
no fait arrumòriu.
No s'intendit tzùnchiu
ni chèscia. No s'intendit
tzérriu chi si pesit
...furiosu
a su gosu de s'intruxu indìnniu.
In custu citiri artu
e sbregungiu
de bestiàmini fertu de ressìnniu
si morit
su benidori 'e fillu miu
sentz'e atitu perunu...

La morte della nostra terra/ non fa rumore./ Non si sente gemito/ nè lamento. Non si sente/ grido che si levi/ furibondo/ all'orgasmo dell'indegno avvoltoio./ In questo silenzio alto/ e vergognoso/ di bestiame colpito dalla rassegnazione/ muore/ il futuro di mio figlio/ senza compianto alcuno...

mercoledì 6 ottobre 2010

La tortura e il rogo di Lliri (Caller, 1670)

PAOLA ALCIONI

– Noi non possiamo mentire: siamo dinanzi a Dio, suoi ministri. Ma tu, perché non ci dici quello che vogliamo sapere e poi te ne vai libera, a vendicarti del tradimento? Non sarebbe dolce, ora, vendicarti di un uomo che ti vende così, per soldi, come un oggetto?
Poiché lei non parlava e stava così, a capo chino, del tutto abbandonata al suo dolore, l’Inquisitore fece un gesto ed uno degli assistenti portò una trappola rudimentale, dove stava rinchiuso un topo.
Lliri sbarrò lo sguardo, ritraendosi con orrore.
Sapeva che quella era una tortura applicata a streghe ed eretici: un topo vivo era infilato nella vagina, o nell’ano, con la testa rivolta verso gli organi interni e, spesso, l’apertura veniva cucita.
Con un gemito, cercò di ritrarsi. Ma la presero e le divaricarono le gambe a forza.
Così, accolse con un urlo stravolto, spezzato e folle, che nulla aveva più di umano, l’orrore che la penetrava, nell’unico amplesso che le fosse dato conoscere.
Nei fremiti del viso stravolto, si riflettevano i fremiti della bestia che, cercando affannosamente una via d’uscita, graffiava e rodeva e si addentrava, centimetro dopo centimetro, dentro di lei.
Pochi terribili minuti.
Poi la voce divenuta rauca si ruppe, ad un tratto, come recisa da una falce di silenzio.
Assordante, quell’improvvisa assenza.
Rimasero, a dire che era viva, solo muti sussulti, che ancora squassavano il corpo, ai lampi di dolore provocati dalla disperata agonia dell’animale.
Quando la bestia smise di muoversi, parve morta anche lei. Il corpo percorso solo da lunghi brividi.
Poi, quando gli inquisitori si ritirarono, cominciò a gonfiarsi.
Il sirurgian decise, a costo della vita, di mettere fine alle sue sofferenze, e preparò una mistura che le avrebbe spento la coscienza e donato una morte rapida. Le offrì il liquido in una ciotola di legno.
– Con questo eviterai le fiamme – le disse, ma lei distolse le labbra, arrossate da un gorgoglio di sangue che saliva dai recessi di quella maternità d’orrore che custodiva nel ventre. Gli occhi velati.
– Fammi solo un cenno, e ti finisco con una pugnalata al cuore – insistette, disperato.
No, disse lento il capo di Lliri: non avrebbe saputo, né più poteva, dire alcunché.
L’uomo vide allora, gli occhi assorti di lei, fissare dietro le sue spalle, incantarsi in una luce di dolcezza quieta. Si voltò d’istinto, ma non c’era nessuno.
– Cosa vedi? – le domandò, impressionato. Glielo disse.
Là dietro le spalle di quell’estraneo, che voleva salvarle la vita, Lliri vedeva suo padre, in piedi nella sala disadorna e fredda della sua infanzia, sorriderle e togliersi il mantello scuro dalle spalle con un ampio gesto, per avvolgerla nel tepore.

L’indomani, quando la caricarono sulla carretta per condurla a Is Stelladas era ancora viva.
Camminando dalla carretta alla pira, a piedi scalzi, lasciò una scia di sangue scuro che le scivolava lungo le cosce e le gambe fino ai piedi incrostati, fino alla strada estrema che le toccava di fare. E restava, pasticciato dall’orlo della sottana, a segnare quel calvario.
Legata che fu al palo eretto in mezzo alla catasta di legna, non si capiva se la quantità di vita che ancora le restava, l’avrebbe retta fino allo strazio delle fiamme o se, pietosa, le sarebbe mancata prima.
Quando accesero il fuoco, sollevò a fatica il capo, scostò le palpebre - gonfie nel viso smunto e sporco - e mosse intorno, da quella fessura, uno sguardo che ammutolì il gruppetto di coraggiosi e curiosi che là si erano radunati. Uno ad uno li guardò, attraverso le prime volute di fumo che si levavano.
Uno ad uno, tra le prime lingue di fuoco.
Solo l’uomo che aveva tentato di evitarle quella sofferenza, celato dietro lo spigolo di un muro, capì cosa c’era nella muta ricerca che quello sguardo conduceva, dal ciglio della morte.
Attesa, c’era. E amore.
Ma vedeva anche che nessuno si faceva avanti ad onorarlo. Nessuno con una voce, con un urlo, cercava d’impedire quella morte. Nessuno saltava sulla pira, per recidere le corde che legavano la donna al palo. Nessuno la soccorreva. Nessuno, nemmeno, le faceva mostra d’una presenza o d’un conforto, ma lei fino all’ultimo continuò ad attendere e a cercare.
Poi, mentre le fiamme si accostavano ai piedi, tutti credettero che fosse morta perché non si levò un grido dal rogo.
Solo, il corpo oscillava tra il riverbero e gli occhi si spalancavano a cercare oltre la vampa che la raggiungeva, di là dal bagliore che l’accecava, qualcuno.
Ancora e ancora. Qualcuno. Con smisurato amore. Con sovrumana fiducia.
Estrema carezza lo sguardo, sfiorava almeno l’assenza, che era pur qualcosa - un nulla, un vuoto - di quello che attendeva invano.
Non vedendolo giungere, rievocò dal profondo della sua memoria di dolore, l’unica dolcezza: il nome che gli aveva dato tanto tempo prima, pronunciando un giuramento e guardandolo l’ultima volta negli occhi.
Le fiamme avvolsero la sua veste.
Quel nome si alzò improvviso e straziante dal rogo: lo aveva dimenticato, ma ora le saliva alle bolle roventi delle labbra per un ennesimo addio.
Le donne impallidirono, come se una pena venisse ad abitare il loro petto, all’improvviso, con buie ali di corvo. Gli uomini più incalliti chinarono il mento al petto, altri si allontanarono, con le spalle curve.
Pochi avevano voglia di restare a guardare la donna di fiamma, quella torcia d’amore che chiamava nella notte con pietosa dolcezza, mentre il fuoco le sollevava orrende bolle e le anneriva le carni.
Di quei pochi, quasi tutti sentivano le gambe vacillare, al silenzio senza speranza che le rispondeva, alto, quasi più udibile del crepitio del fuoco.
Lei, ancora una volta, dopo un accesso di tosse, chiamò: invocazione di sillabe senza più significato. Le guardie lasciarono cadere le picche e calcarono al suolo le torce, con le quali rinvigorivano il fuoco, quando languiva. In terra, rimasero larghe bocche spalancate e nere, esalanti aliti di fumo.
Si alzò ancora il richiamo, più fievole e incomprensibile.
E ancora. Finché ebbe respiro.
Poi ne restò solo l’eco ritornante, celato dalla pietà della notte dietro il rimbombo greve della campana a morto.
Finché le guance non furono arse e scavate, finché gli occhi non furono calcinati e spenti. Finché la lingua non fu più che un grumo muto.
Ed il corpo un resto fumante che il vento infine, a larghe scaglie tiepide, sfaldava in pallidi petali d’argento, che erano le ali della sua anima di gabbiano.
Lei non lo sapeva, ma ora si levava con esse in volo.
Giglio d’inverno non sapeva più nulla.
Il vento la portava, lungo le strade ferite della Città di pietra, storia tra mille storie perdute, ignara d’essere unita alla sorella come lo fu nel seno materno: Giglio d’inverno con petali di cenere.

Paola Alcioni (inedito)

martedì 5 ottobre 2010

HO RINNOVATO I MIEI PATTI CON LA TERRA

PAOLA ALCIONI poeta

Ho rinnovato i miei patti con la terra.
Terra mia, madre di ogni germoglio...

Ho raccolto la terra, l’ho setacciata e impastata, con ghiande e preghiere.
Ne ho fatto un pane tondo e schiacciato e, sempre pregando, l’ho cotto.
Poi mi sono inginocchiata e l’ho spezzato, portandone un pezzo alla bocca.
Con la mia terra mi sono comunicata, come se fosse un’ostia. Così facevano i nostri antenati.

"Dalle tue mani vuote e incatenate, si leverà un giorno un sogno" predisse l'Indovino.
La dignità della mia terra, che si leva al grido delle genti, per trasformarsi in libertà! pensavo...

Ho indossato sulle spalle il mantello di Poeta e ad armacollo l'antico pugnale di Guerriera.
Coraggio di cuoio ho stretto ai polsi, come fa la mia gente da millenni per difendersi dallo sfregare delle catene.
Ed ho cominciato a mettere passi nella dura via della tempesta, con il vento e il crepuscolo d'autunno per compagni.

Giunta al crocevia, mi aspettava la Nemica, TresCaras.
LA SORTE, LA VITA, LA MORTE sono i suoi tre volti, nascosti da cappucci intessuti di ghiaccio ed euforbia.

Nella nostra partita millenaria, oggi toccava a lei la mossa.
LA VITA sceglie regole e forme, LA MORTE luoghi e tempi per giocare, LA SORTE sceglie sotterfugi e persone.
Io non scelgo niente. Dunque gioco, perché se non gioco perdo in ogni caso.

Ecco la mossa!
Si tende l'agghiacciata mano e suscita il gesto della Puttana dalle nebbie d’autunno una figura...
La nuova prova, pensata per annientarmi, per spezzarmi il cuore...

Ho fatto un passo, ho guardato il tuo giovane volto ed ho tremato.

Tradimento...
Ma neanche le altre mosse erano leali.
La Grande Bastarda...

Lasciato cadere il mantello, ho serrato i denti, ho stretto ancor più il cuoio ed afferrato il pugnale, per tagliare le maniche alla tunica, i miei capelli lunghi di oleandro e recidere il sogno alla radice, dividendomi l'anima in due parti.

Poi mi sono incamminata.

Gocce vivide ingoiava la polvere del sentiero ed il buio, dietro i miei passi incerti.
E mentre a fatica e senza senso mettevo l'uno davanti all'altro quei miei passi, dalle mani vuote e incatenate, lasciavo andare libero il mio sogno.
Il mio sogno migliore.

Solo quando si è spenta alle mie spalle l'eco della risata tre volte folle, mi sono fermata sotto l’arco indifferente della sera pervasa di fragranza di gelsomini.
E a capo chino - cadendo con un ginocchio a terra, il petto aperto dai singhiozzi ed il tuo nome alle labbra - ho pianto.