sabato 30 giugno 2012

Pasolini: Per l’ultima nota-poesia in occasione de...


....come un volo nel lucido sogno volteggia osserva e vede il dipanarsi di immagini, fantasie, idee, sentimenti e sensazioni di vissuto e di desiderato amore per realtà guardate da un lontano scoglio ove ancor onda non sè infranta per cordoglio di nostro amico compagno e fratello Antoni Gramsci...

gratzias meda a sa Bibrioteca Gramsciana de custa mesada de cantadas pro su nostu antigu patriota e cumpantzu de gherra....

e pro totus is cantadori chi ci ant obertu sa bia de su sentidu Pieru Paulu ci narat ancora cun fortza de belleza ...

"sano dei nostri padri - non padre, ma umile fratello - già con la tua magra mano delineavi l'ideale che illumina..." ‎

Vàturu Erriu Onnis Sayli 


La Biblioteca Gramsciana Per l’ultima nota-poesia in occasione del 55° anniversario della pubblicazione de LE CENERI DI GRAMSCI


Le Ceneri di Gramsci


 I

Non è di maggio questa impura aria
che il buio giardino straniero
fa ancora più buio, o l'abbaglia

con cieche schiarite... questo cielo
di bave sopra gli attici giallini
che in semicerchi immensi fanno velo

alle curve del Tevere, ai turchini
monti del Lazio... Spande una mortale
pace, disamorata come i nostri destini,

tra le vecchie muraglie l'autunnale
maggio. In esso c'è il grigiore del mondo,
la fine del decennio in cui ci appare

tra le macerie finito il profondo
e ingenuo sforzo di rifare la vita;
il silenzio, fradicio e infecondo...

Tu giovane, in quel maggio in cui l'errore
era ancora vita, in quel maggio italiano
che alla vita aggiungeva almeno ardore,

quanto meno sventato e impuramente
sano
dei nostri padri - non padre, ma umile
fratello - già con la tua magra mano

delineavi l'ideale che illumina

(ma non per noi: tu morto, e noi
morti ugualmente, con te, nell'umido

giardino) questo silenzio. Non puoi,
lo vedi?, che riposare in questo sito
estraneo, ancora confinato. Noia

patrizia ti è intorno. E, sbiadito,
solo ti giunge qualche colpo d'incudine
dalle officine di Testaccio, sopito

nel vespro: tra misere tettoie, nudi
mucchi di latta, ferrivecchi, dove
cantando vizioso un garzone già chiude

la sua giornata, mentre intorno spiove.

II

Tra i due mondi, la tregua, in cui non
siamo.
Scelte, dedizioni... altro suono non hanno
ormai che questo del giardino gramo

e nobile, in cui caparbio l'inganno
che attutiva la vita resta nella morte.
Nei cerchi dei sarcofaghi non fanno

che mostrare la superstite sorte
di gente laica le laiche iscrizioni
in queste grigie pietre, corte

e imponenti. Ancora di passioni
sfrenate senza scandalo son arse
le ossa dei miliardari di nazioni

più grandi; ronzano, quasi mai
scomparse,
le ironie dei principi, dei pederasti,
i cui corpi sono nell'urne sparse

inceneriti e non ancora casti.
Qui il silenzio della morte è fede
di un civile silenzio di uomini rimasti

uomini, di un tedio che nel tedio
del Parco, discreto muta: e la città
che, indifferente, lo confina in mezzo

a tuguri e a chiese, empia nella pietà,
vi perde il suo splendore. La sua terra
grassa di ortiche e di legumi dà

questi magri cipressi, questa nera
umidità che chiazza i muri intorno
a smotti ghirigori di bosso, che la sera

rasserenando spegne in disadorni
sentori d'alga... quest'erbetta stenta
e inodora, dove violetta si sprofonda

l'atmosfera, con un brivido di menta,
o fieno marcio, e quieta vi prelude
con diurna malinconia, la spenta

trepidazione della notte. Rude
di clima, dolcissimo di storia, è
tra questi muri il suolo in cui trasuda

altro suolo; questo umido che
ricorda altro umido; e risuonano
- familiari da latitudini e

orizzonti dove inglesi selve coronano
laghi spersi nel cielo, tra praterie
verdi come fosforici biliardi o come

smeraldi: "And O ye Fountains..." - le pie
invocazioni...

III

Uno straccetto rosso, come quello
arrotolato al collo ai partigiani
e, presso l'urna, sul terreno cereo,

diversamente rossi, due gerani.
Lì tu stai, bandito e con dura eleganza
non cattolica, elencato tra estranei

morti: Le ceneri di Gramsci... Tra
speranza
e vecchia sfiducia, ti accosto, capitato
per caso in questa magra serra, innanzi

alla tua tomba, al tuo spirito restato
quaggiù tra questi liberi. (O è qualcosa
di diverso, forse, di più estasiato

e anche di più umile, ebbra simbiosi
d'adolescente di sesso con morte...)
E, da questo paese in cui non ebbe posa

la tua tensione, sento quale torto
- qui nella quiete delle tombe - e insieme
quale ragione - nell'inquieta sorte

nostra - tu avessi stilando le supreme
pagine nei giorni del tuo assassinio.
Ecco qui ad attestare il seme

non ancora disperso dell'antico dominio,
questi morti attaccati a un possesso
che affonda nei secoli il suo abominio

e la sua grandezza: e insieme, ossesso,
quel vibrare d'incudini, in sordina,
soffocato e accorante - dal dimesso

rione - ad attestarne la fine.
Ed ecco qui me stesso... povero, vestito
dei panni che i poveri adocchiano in
vetrine

dal rozzo splendore, e che ha smarrito
la sporcizia delle più sperdute strade,
delle panche dei tram, da cui stranito

è il mio giorno: mentre sempre più rade
ho di queste vacanze, nel tormento
del mantenermi in vita; e se mi accade

di amare il mondo non è che per violento
e ingenuo amore sensuale
così come, confuso adolescente, un tempo

l'odiai, se in esso mi feriva il male
borghese di me borghese: e ora, scisso
- con te - il mondo, oggetto non appare

di rancore e quasi di mistico
disprezzo, la parte che ne ha il potere?
Eppure senza il tuo rigore, sussisto

perché non scelgo. Vivo nel non volere
del tramontato dopoguerra: amando
il mondo che odio - nella sua miseria

sprezzante e perso - per un oscuro
scandalo
della coscienza...

IV

Lo scandalo del contraddirmi,
dell'essere
con te e contro te; con te nel core,
in luce, contro te nelle buie viscere;

del mio paterno stato traditore
- nel pensiero, in un'ombra di azione -
mi so ad esso attaccato nel calore

degli istinti, dell'estetica passione;
attratto da una vita proletaria
a te anteriore, è per me religione

la sua allegria, non la millenaria
sua lotta: la sua natura, non la sua
coscienza: è la forza originaria

dell'uomo, che nell'atto s'è perduta,
a darle l'ebbrezza della nostalgia,
una luce poetica: ed altro più

io non so dirne, che non sia
giusto ma non sincero, astratto
amore, non accorante simpatia...

Come i poveri povero, mi attacco
come loro a umilianti speranze,
come loro per vivere mi batto

ogni giorno. Ma nella desolante
mia condizione di diseredato,
io possiedo: ed è il più esaltante

dei possessi borghesi, lo stato
più assoluto. Ma come io possiedo la
storia,
essa mi possiede; ne sono illuminato:

ma a che serve la luce?

V

Non dico l'individuo, il fenomeno
dell'ardore sensuale e sentimentale...
altri vizi esso ha, altro è il nome

e la fatalità del suo peccare...
Ma in esso impastati quali comuni,
prenatali vizi, e quale
oggettivo peccato! Non sono immuni
gli interni e esterni atti, che lo fanno
incarnato alla vita, da nessuna

delle religioni che nella vita stanno,
ipoteca di morte, istituite
a ingannare la luce, a dar luce
all'inganno.
Destinate a esser seppellite
le sue spoglie al Verano, è cattolica
la sua lotta con esse: gesuitiche

le manie con cui dispone il cuore;
e ancor più dentro: ha bibliche astuzie
la sua coscienza... e ironico ardore

liberale... e rozza luce, tra i disgusti
di dandy provinciale, di provinciale
salute... Fino alle infime minuzie

in cui sfumano, nel fondo animale,
Autorità e Anarchia... Ben protetto
dall'impura virtù e dall'ebbro peccare,

difendendo una ingenuità di ossesso,
e con quale coscienza!, vive l'io: io,
vivo, eludendo la vita, con nel petto

il senso di una vita che sia oblio
accorante, violento... Ah come
capisco, muto nel fradicio brusio

del vento, qui dov'è muta Roma,
tra i cipressi stancamente sconvolti,
presso te, l'anima il cui graffito suona

Shelley... Come capisco il vortice
dei sentimenti, il capriccio (greco
nel cuore del patrizio, nordico

villeggiante) che lo inghiottì nel cieco
celeste del Tirreno; la carnale
gioia dell'avventura, estetica

e puerile: mentre prostrata l'Italia
come dentro il ventre di un'enorme
cicala, spalanca bianchi litorali,
sparsi nel Lazio di velate torme
di pini, barocchi, di giallognole
radure di ruchetta, dove dorme

col membro gonfio tra gli stracci un
sogno
goethiano, il giovincello ciociaro...
Nella Maremma, scuri, di stupende fogne

d'erbasaetta in cui si stampa chiaro
il nocciolo, pei viottoli che il buttero
della sua gioventù ricolma ignaro.

Ciecamente fragranti nelle asciutte
curve della Versilia, che sul mare
aggrovigliato, cieco, i tersi stucchi,

le tarsie lievi della sua pasquale
campagna interamente umana,
espone, incupita sul Cinquale,

dipanata sotto le torride Apuane,
i blu vitrei sul rosa... Di scogli,
frane, sconvolti, come per un panico

di fragranza, nella Riviera, molle,
erta, dove il sole lotta con la brezza
a dar suprema soavità agli olii

del mare... E intorno ronza di lietezza
lo sterminato strumento a percussione
del sesso e della luce: così avvezza

ne è l'Italia che non ne trema, come
morta nella sua vita: gridano caldi
da centinaia di porti il nome

del compagno i giovinetti madidi
nel bruno della faccia, tra la gente
rivierasca, presso orti di cardi,

in luride spiaggette...

Mi chiederai tu, morto disadorno,
d'abbandonare questa disperata
passione di essere nel mondo?

VI

Me ne vado, ti lascio nella sera
che, benché triste, così dolce scende
per noi viventi, con la luce cerea

che al quartiere in penombra si
rapprende.
E lo sommuove. Lo fa più grande, vuoto,
intorno, e, più lontano, lo riaccende

di una vita smaniosa che del roco
rotolio dei tram, dei gridi umani,
dialettali, fa un concerto fioco

e assoluto. E senti come in quei lontani
esseri che, in vita, gridano, ridono,
in quei loro veicoli, in quei grami

caseggiati dove si consuma l'infido
ed espansivo dono dell'esistenza -
quella vita non è che un brivido;

corporea, collettiva presenza;
senti il mancare di ogni religione
vera; non vita, ma sopravvivenza

- forse più lieta della vita - come
d'un popolo di animali, nel cui arcano
orgasmo non ci sia altra passione

che per l'operare quotidiano:
umile fervore cui dà un senso di festa
l'umile corruzione. Quanto più è vano

- in questo vuoto della storia, in questa
ronzante pausa in cui la vita tace -
ogni ideale, meglio è manifesta

la stupenda, adusta sensualità
quasi alessandrina, che tutto minia
e impuramente accende, quando qua

nel mondo, qualcosa crolla, e si trascina
il mondo, nella penombra, rientrando
in vuote piazze, in scorate officine...

Già si accendono i lumi, costellando
Via Zabaglia, Via Franklin, l'intero
Testaccio, disadorno tra il suo grande

lurido monte, i lungoteveri, il nero
fondale, oltre il fiume, che Monteverde
ammassa o sfuma invisibile sul cielo.

Diademi di lumi che si perdono,
smaglianti, e freddi di tristezza
quasi marina... Manca poco alla cena;

brillano i rari autobus del quartiere,
con grappoli d'operai agli sportelli,
e gruppi di militari vanno, senza fretta,

verso il monte che cela in mezzo a sterri
fradici e mucchi secchi d'immondizia
nell'ombra, rintanate zoccolette

che aspettano irose sopra la sporcizia
afrodisiaca: e, non lontano, tra casette
abusive ai margini del monte, o in mezzo

a palazzi, quasi a mondi, dei ragazzi
leggeri come stracci giocano alla brezza
non più fredda, primaverile; ardenti

di sventatezza giovanile la romanesca
loro sera di maggio scuri adolescenti
fischiano pei marciapiedi, nella festa

vespertina; e scrosciano le
saracinesche
dei garages di schianto, gioiosamente,
se il buio ha resa serena la sera,

e in mezzo ai platani di Piazza Testaccio
il vento che cade in tremiti di bufera,
è ben dolce, benché radendo i capellacci

e i tufi del Macello, vi si imbeva
di sangue marcio, e per ogni dove
agiti rifiuti e odore di miseria.

È un brusio la vita, e questi persi
in essa, la perdono serenamente,
se il cuore ne hanno pieno: a godersi

eccoli, miseri, la sera: e potente
in essi, inermi, per essi, il mito
rinasce... Ma io, con il cuore cosciente

di chi soltanto nella storia ha vita,
potrò mai più con pura passione operare,
se so che la nostra storia è finita?

Pier Paolo Pasolini - 

Pasolini di fronte alle ceneri di Gramsci.

martedì 26 giugno 2012

Mohamèd


Mohamèd 
di Giampaolo Salaris.

Mohamèd

Cant’annus teniasta Mohamèd
candu sa balla t’aiat trapassau?
In bratzusu babbu t’aiat artziau
cun lagrimas medas de febi
t’aiat portau a s’altari
trogau cun banderas pintadas.
Doxi annus teniasta Mohamèd
cumenti a su fillu chi apu criau.

Cant’annus teniasta Mohamèd
candu de domu ti fiasta fuiu
su mundu pentzendi de podi acafai?
Nci fiasta ghetau a su mari
is boxis malinnias sighendi
circhendi in is undas fortuna.

Ti fiasta abbrancau a sa roca
candu su mari si fiat trumbullau
pedendi perdonu implorendi piedadi
po curpas mai cumitidas.
Lamadas t’aiant allupau
intruxas po sempri famìdas. 

Cant’annus teniasta Mohamèd
candu in sa ruga t’aianta lassau?
T’aianta donau tres soddus de prata
fadendi promissas de gosu
losingus po si spassiai
in domus de lussu pudescias.
Doxi annus teniasta Mohamèd
cumenti a su fillu chi apu criau.

Portasta bistiri de festa
candu su coru t’aianta spollau
bistiri chi mamma t’aiat preparau
cosendi cun cantus de amori
sonnendi is isteddus de oru
po fillu de mamma stimau.

Dox’annus teniasta Mohamèd
candu su mundu t’aiat refudau.
In bratzusu babbu t’aiat artziau
cun lagrimas medas de febi
t’aiat portau a s’altari
trogau cun banderas pintadas.
Dox’annus teniasta Mohamèd
dox’annus teniasta Mohamèd.


Mohamèd

Quanti anni avevi, Mohamèd,
quando la palla ti trapassò?
Ti sollevò in braccio il tuo papà
con molte  lacrime di rabbia,
e ti posò sull’altare
avvolto in bandiere di tanti colori.
Avevi dodici anni, Mohamèd,
come il figlio che ho generato.

Quanti anni avevi, Mohamèd,
quando scappasti da casa
il mondo pensando di poter afferrare.
Ti avventurasti in mare
seguendo le voci maligne
cercando nelle onde fortuna.

Ti aggrappasti alla roccia
quando il mare si fece burrasca
chiedendo perdono, implorando pietà
per colpe mai commesse.
Ti annegarono le onde
avvoltoie affamate per sempre.

Quanti anni avevi, Mohamèd,
quando ti abbandonarono sulla strada?
Ti diedero tre soldi d’argento
facendoti promesse di piacere
lusinghe per divertirsi
in luride case di lusso.

Avevi il vestito della festa
quando ti denudarono il cuore
il vestito che mamma ti aveva preparato
cucendo con canti d’amore,
sognando stelle d’oro
per un figlio tanto amato.

Giampaolo Salaris

Opera di Simone Frau dal quaderno degli schizzi Gramsciani.

venerdì 22 giugno 2012

S’ anade fea


 S’ anade fea – Il Brutto anatroccolo 

di Lussorio Cambiganu

S’ anade fea

Naschidu che incantu d’ aurora
in sue Ales as postu primos passos,
ma de Sardigna as connotu sos zassos
ei sos lamentos nd’ as coglidu otora.
In Ghilarza as bidu chin sos rassos
de sorte ‘ona e bona dimora,
no che a tie,  chi pares dae fora
malu che peste chi  faghet fragassos.

Cando, però, sa conca in su pessare
pesat  ‘olu che abila rejna,
faghes de s’ingiustiscia una chejina
fuida dae sa braja in su sulare.
Tue chin ‘oza e chin sa mente fina
pones a conca a s’istudiare,
brillas che lughe chi paret brujare
sa mala sorte ch’ as apidu a istrina. 

Dae Casteddu  brincadu a Torino
leas connotu de vida e de diritu,
sa soziedade est solu apitu
a sas ideas tuas,  che oro fino.
Tue ti pesas che agos de eritu,
finzas si semper eo no bi cumbino,
in sas ideas mias m’ incamino,
zeltas cunvinziones ponent fritu.

Ma de a tie su c’ apo in sa mente
est cuss’idea  de sa  libeltade,
“onore a Isse, sa conca abasciade !!”
amus innanti esempiu  balente.
Chi’ est sa pessona, a mie nade,
chi pro ideas suas e atera  zente
lassat totu in terra pro niente
ei sa morte leat in veridade?

Su sinnu tou olat in su mundu,
in terra anzena est ‘e bon’ aficu
solu innoghe no at passificu,
est ancora assente e vagabundu.
Non b’at peus de unu cherveddu sicu
chi peldet sa memoria  dae profundu,
dende isetu a su machine in tundu,
destinu e  isperas sunt  totu   apicu.


Il brutto anatroccolo

Nato come  l’incanto dell’aurora
ad Ales hai messo i primi passi,
ma della Sardegna ai conosciuto i luoghi
ed i lamenti hai conosciuto sempre.
A Ghilarza hai vissuto con i grassi
di buona sorte e buona dimora,
non come te, che sembri dal di fuori
bruto come la peste che combina sfracelli.

Quanto, però, la testa nel pensare
alza il volo come un’ aquila regina,
fai dell’ ingiustizia una cenere
che fugge dalle brace quando si soffia.
Tu con la volontà e con la mente fina
metti  testa nello studio,
brilli di luce che sembra bruciare
la mala sorte che hai avuto in regalo.

Da Cagliari, fai il salto a Torino,
conosci la vita ed il diritto,
la società sta aspettando
le tue idee filigranate.
Tu emergi come gli aculei del riccio,
anche se non sempre ti condivido,
continuo a seguire le mie idee,
certe convinzioni  fanno rabbrividire.

Ma di te, ciò che ho in mente
è quell’ idea della libertà,
“onore a Lui, chinate la testa!!”
abbiamo davanti un valente esempio.
Chi è la persona, ditemi,
che per le sue idee e per il prossimo
lascia tutti i beni materiali per nulla,
e la morte affronta in sincerità?

Il tuo pensiero vola in tutto il pianeta,
nei paesi stranieri è in gran considerazione,
solo qui da noi no ha germinato
è ancora assente e vagabondo.
Non c’è peggior cosa di un cervello secco
che perde la memoria dal profondo,
preoccupandosi delle pochezze a tutto tondo,
il destino e le speranze calano a picco.

Lussorio (Rino) Cambiganu

 Opera di Michele Melis dal quaderno di schizzi Gramsciani.

... gli occhi tuoi neri....

je t'aime

mon amour!

I tuoi occhi

belli scuri

mi esplorano

entrano

scandendo

ogni emozione

del mio cuore.

Quello sguardo

dolce e

indagatore ,

selvatico e


appassionato

gentile e distaccato

contemplativo

e trabordante

... d'amore!

vàturu erriu onnis sayli

mercoledì 20 giugno 2012

AP’A PASAI...


Paola Alcioni Sa Cantadora

AP’A PASAI...

Fortzis m'at a allebiai
custa tristura
candu ant arrui
is follas de s’atóngiu
e su linnarbu cantzau
spollinca nai
at a stendiai, preghendi
solu...

Fortzis paxi ap’a tenni
mirendi
is arrúndilis mias in bolu
scabúllias is títiris cadenas
de s'ierru, apustis tantu,
po circai in àterus
beranus nous consolu.

Intzandus
arrimada custa gruxi ‘e dolu
tragada is dìs prus longas
e tostadas...

ap'a pasai.

De cuddu
dolori mannu mannu
de cudda
timoria aggraviosa
fortzis m’at a torrai
acutza
de marigosa memória
s’ùrtima spina.

Repentina
m’at a lompi
che lama
in d-unu durci
scurigadroxu ‘e gesminu

e a su niu in su coru
miu de mama
s’ùrtimu amparu ap’a donai
tambeni
ingruxiendimí
is manus in su sinu...

Sa Cantadora (dexennoi de mesi ‘e làmpadas duamilla e doxi)

RIPOSERÒ

Forse mi si allevierà/ questa tristezza/ quando cadranno/ le foglie autunnali/ ed il pioppo stanco/ ramo nudo distenderà, pregando/ solo.
Forse avrò pace/ osservando/ le mie rondini in volo/ scampate le rigide catene/ dell’inverno, finalmente,/ per cercare consolazione/ in altre nuove primavere.
Allora/ posata questa croce di dolore/ portata a stento nei giorni più lunghi/ e duri...

riposerò.

Di quel/ dolore grande grande/ di quella/ paura oltraggiosa/ forse mi tornerà/ aguzza/ di memoria amara/ l’ultima spina.
All’improvviso/ arriverà/ come lama/ in un dolce/ crepuscolo di gelsomino/ e al nido nel cuore/ mio di madre/ darò l’ultima protezione/ ancora/ mettendo le mani in croce/ sopra il seno...